In Sudamerica, e in Argentina in particolare, i soprannomi sono una cosa seria.
Averne uno è un tratto distintivo, un onore, un modo per farsi riconoscere sui campi di calcio e per costruirsi un’identità.
Non per forza i soprannomi rispecchiano le caratteristiche fisiche di un calciatore, e non per forza vengono fuori dalla fisionomia, dalla storia personale, dalla famiglia, o da chissà cosa. A volte, per guadagnarsi un soprannome che durerà per tutta la vita, basta anche qualcosa di casuale.
Come successe a Julio Ricardo Cruz ai tempi del Banfield; per gioco, alla fine di qualche allenamento, si mette a gironzolare intorno a un tosaerba insieme a qualche compagno, si mette al comando dell’attrezzo, e in un attimo ecco qui il suo soprannome. El Jardinero, niente male però.
L’attaccante argentino è un dolce ricordo per i tifosi italiani, in particolare per quelli dell’Inter, con cui ha vissuto delle stagioni indimenticabili, e per quelli del Bologna, con la cui maglia si è messo in mostra in Serie A facendosi conoscere. Un po’ meno per quelli della Juventus, la vittima preferita dei gol di Cruz: 10 in 20 scontri diretti.
Cruz nasce a Santiago del Estero, nord dell’Argentina, il 10 ottobre del 1974, e cresce calcisticamente nel Banfield. Ben presto, però, il River Plate si accorge di lui, e gli mette addosso la prestigiosa maglia bianca con la banda diagonale rossa.
Basta una sola stagione con la maglia dei Millonarios per capire che quell’attaccante ha qualcosa di speciale. Tra il ’96 e il ’97 segna 18 gol, e gli olandesi del Feyenoord, senza indugio alcuno, decidono di puntare su di lui, investendo una discreta somma per portarlo in Eredivisie.
Nei tre anni con la squadra di Rotterdam segna a ripetizione, praticamente un gol ogni due partite, quasi un appuntamento fisso. Se ne accorge anche la Juventus, che incrocia Cruz il 26 novembre del 1997 in Champions League: el Jardinero colpisce con una doppietta, un siluro dal limite dell’area e un gol di puro istinto, anticipando tutti i difensori bianconeri.
In Olanda rimane fino al 2000, segnando 52 gol in 112 partite. Una nuova avventura lo attende all’orizzonte, e c’è l’Italia nel suo futuro. Cruz veste la maglia rossoblu del Bologna, per andare in un reparto offensivo che già vede Kolyvanov, Beppe Signori, Lulù Olivera.
L’impatto con la Serie A sembra essere complicato, ma dopo la prima stagione chiusa a quota 7 gol in campionato, nelle due stagioni successive arriva sempre in doppia cifra, a quota 10. Considerando che non gioca in una big, un bottino di rilievo, che attira l’interesse dell’Inter.
All’inizio della stagione 2003-04 i nerazzurri lo portano a Milano, dove Cruz diventerà un vero e proprio specialista degli ingressi a partita in corso. Raramente un giocatore era stato così decisivo entrando dalla panchina, ma per Julio Ricardo Cruz le cose sembrano naturali.
Mai una polemica, mai una contestazione. El Jardinero è consapevole del suo ruolo, e lo fa diventare un punto di forza. Umile, silenzioso, lontano dalle polemiche, non alza mai la voce, ma fa parlare il campo, anzi, i gol. A Milano rimane 6 anni, segnando 75 gol. E, soprattutto, facendo innamorare i tifosi dell’Inter che lo fanno diventare un loro beniamino.
Passerà anche dalla Lazio, a fine carriera, nel 2009/10, per un ultimo ballo in serie A prima del ritiro, che viene annunciato nella primavera del 2010, dopo qualche infortunio di troppo.
Questo è stato El Jardinero. Un giocatore poco appariscente, terribilmente efficace, capace di parlare la lingua universale del gol.