Chiunque abbia iniziato a seguire il calcio verso la fine degli anni ’90 non può non ricordarsi di Ibrahim Ba, istrionico calciatore dai capelli biondo platino visto in Italia con le maglie di Milan e Perugia.
La sua storia incomincia da lontano, precisamente a Dakar, in Senegal, dove nasce il 12 Novembre 1973 e dove rimane per pochi anni, prima che la sua famiglia si trasferisca in Francia.
Il giovane Ibrahim sogna di fare il calciatore e si impegna a fondo per riuscirci, almeno inizialmente: si mette in mostra nelle giovanili del Le Havre, esordisce in prima squadra a 19 anni e nei cinque anni di permanenza in squadra si fa notare per le ottime prestazioni e per i buoni numeri messi insieme.
A spuntarla, siamo nel 1996, è il Bordeaux che si assicura le prestazioni di quello che ha tutte le sembianze di un piccolo astro nascente, non ancora esploso ma in procinto di farlo. Nell’unica stagione al Bordeaux, Ibrahim Ba conferma quanto di buono si dice sul suo conto, realizza 6 reti complessive, entra nel giro della Nazionale francese e attira su di sé le attenzioni dei club più prestigiosi d’Europa.
La Ligue 1 gli sta decisamente stretta e quando sente suonare le sirene italiane, del Milan in particolare, non ci pensa un secondo e si trasferisce. Silvio Berlusconi ha messo sul piatto francese 11,5 miliardi di lire, sufficienti perché il Bordeaux lo lasci andare senza grossi tentennamenti.
Ibou, questo il soprannome con cui lo chiamano tutti, ha un impatto decisamente positivo con il nostro campionato: già nella prima amichevole disputata contro il Monza va a segno e si mette in evidenza per i suoi guizzi palla al piede che incantano il Presidente rossonero.
L’impatto positivo viene confermato anche in campionato, dove Ibou Ba trova la via del gol già alla seconda giornata contro la Lazio. Sa benissimo che il nostro campionato nasconde mille insidie e che il fatto di aver cominciato bene è sì importante, soprattutto per il morale, ma per il resto significa poco o nulla. D’altra parte il mondo del calcio è pieno di esempi di calciatori il cui primo impatto con una squadra, o con un campionato, è stato positivo salvo poi finire bruciati nel tempo, ridotti a comparse o poco più.
Quello che forse Ibou Ba non sa, o non si immagina, è che quel gol rimarrà anche l’unico realizzato in maglia rossonera, nonostante il discreto numero di presenze che riuscirà ad accumulare nelle diverse esperienze con la casacca del Diavolo.
La prima stagione, ’97-’98, ad onor del vero non si può considerare negativa, o almeno non più deludente di quella dell’intera squadra, che chiude il campionato al 10° posto e costa la panchina al tecnico Fabio Capello. Se è vero che Ibrahim Ba realizza una sola rete è altrettanto vero che spesso riesce a fornire assist vincenti per i propri compagni, a fine stagione saranno 11 complessivi, sfruttando le sue accelerazioni sulla fascia culminate spesso con precisi cross a centro area.
Le cose iniziano a cambiare nella stagione successiva, quando alla guida del Milan subentra Alberto Zaccheroni, il quale cambia anche modulo tattico rispetto al suo predecessore. Dal 4-4-2 si passa al 3-4-3 e nonostante inizialmente Ba parta da titolare finisce ben presto per perdere il posto, relegato in panchina per la maggior parte del tempo.
Le cose per il Milan vanno decisamente meglio rispetto alla stagione precedente, la squadra di Zaccheroni conquista infatti la vittoria dello scudetto, e forse Ibou Ba si convince che il suo ruolo è destinato ad essere quello di panchinaro.
Decide di cambiare squadra, pur rimanendo in Italia, e si accasa al Perugia. Se al Milan il primo impatto era stato positivo lo stesso non si può dire per l’esperienza umbra, iniziata nel peggiore dei modi. È il 18 settembre 1999 quando il Perugia affronta il Cagliari e Ibrahim Ba si rende protagonista di un episodio apparentemente inspiegabile ai danni di Fabio Macellari: una testata in pieno volto mentre la palla era da tutt’altra parte.
Né Collina né i suoi collaboratori vedono nulla tant’è che per squalificare il calciatore si ricorrerà, per la prima volta nella storia del calcio italiano, alla prova televisiva.
“È vero, ho dato una testata a Macellari ma ho ragione io, se la meritava tutta” dirà qualche giorno più tardi, adducendo come motivazione un tentativo di gomitata precedente dell’avversario, salvo poi pentirsi e chiedere scusa.
La sua stagione non prosegue meglio, infatti a Febbraio arriva la rottura del tendine rotuleo che pone fine anticipatamente alla sua esperienza umbra, a dir poco fallimentare.
Torna al Milan anche se ormai è piuttosto evidente che non faccia più parte dei piani tecnici, come dimostrano le sole 11 presenze stagionali. Prova a rilanciarsi all’Olympique di Marsiglia ma non ci riesce e già a Febbraio viene rispedito senza troppi complimenti a Milano.
Con l’arrivo di Ancelotti al Milan le cose non migliorano, per Ibrahim Ba c’è pochissimo spazio e si deve accontentare di qualche scampolo a partita in corso. Vince con il resto della squadra la Coppa Italia e la Champions League, pur non disputando un singolo minuto di gioco nella massima competizione europea per club.
Il suo tempo a Milano è momentaneamente concluso, non del tutto perché come vedremo troverà il modo di ritornarci in chiusura di carriera. Passa al Bolton a titolo definitivo, poi viene spedito in Turchia e da qui in Svezia, siamo nel 2005.
Un brutto infortunio alla caviglia lo tiene lontano dai campi di gioco per parecchio tempo e nel tentativo di recuperare si allena con il Varese in C2, più per volontà di Sogliano, suo ex compagno di squadra ai tempi di Perugia, che non per reale interesse della società.
Ecco che entra in scena nuovamente il Milan, che nel 2007 decide di riprenderlo tra le proprie fila per permettergli di recuperare in maniera ottimale.
Gli offre un contratto di 200.000 euro per un anno, anche perché pare che il giocatore sia molto amato dallo spogliatoio e venga considerato come una sorta di amuleto, un portafortuna un po’ caro ma tremendamente efficace.
Finita la stagione, quando ormai ha 35 anni, Ibrahim Ba annuncia l’addio al calcio giocato per dedicarsi prima al ruolo di osservatore, poi a quello di allenatore.
Chiunque abbia vissuto il calcio in quegli anni non può non essere rimasto legato in qualche modo a questo calciatore, così bizzarro e stravagante ma al tempo stesso incredibilmente vero e sincero.