C’è una parola, nel calcio, che forse dovremmo cominciare a usare un pochino meno.
Una parola che finisce per caricare di aspettative le carriere di tanti giovani calciatori, una parola che finisce per diventare un macigno, un peso da portarsi sempre dietro. Una parola che, in fondo, finisce per condizionare ogni passo di ragazzi che già normalmente vivono con i riflettori puntati addosso.
La parola in questione è “predestinato”.
Un’etichetta che in tanti si vedono mettere addosso dopo buone stagioni nelle giovanili, dopo un esordio da favola, o per le voci che su di lui vengono messe in giro da osservatori e appassionati che si lasciano trascinare dall’entusiasmo.
E quella di Javier Portillo, a un certo punto, sembrava proprio la storia di uno di quei predestinati.
Nato nel 1982, a 12 anni entra nel settore giovanile del Real, e subito comincia a segnare caterve di gol, tanto da arrivare anche a superare i record detenuti da un certo Raul Gonzalez Blanco. Così, quasi sull’onda dell’entusiasmo popolare, nel 2002 viene aggregato alla prima squadra, chiudendo la sua prima stagione con la maglia dei Blancos con 14 gol in 23 presenze, 8 dei quali arrivano in Coppa del Re.
Le premesse sembrano buone, ma l’anno successivo Portillo segna solo 2 gol, faticando a trovare spazio tra i big del Real.
Così, nell’estate del 2004, nella dirigenza dei Blancos si fa strada l’idea di mandarlo in prestito, una specie di Erasmus che dovrebbe avere il compito di formare il ragazzo, di fargli mettere minuti nelle gambe per poi farlo tornare maturato in patria.
La scelta cade sull’offerta della Fiorentina, e così Javier Portillo si veste di viola. Sulla panchina della squadra toscana c’è Emiliano Mondonico, e la fiducia sembra essere tanta, nonostante la concorrenza in attacco sia elevata.
L’attaccante spagnolo segna due gol in Coppa Italia in estate (contro Como e Verona), e fa il suo esordio in Serie A il 12 settembre del 2004 nella sconfitta contro la Roma, entrando in campo all’intervallo al posto di Martin Jorgensen. La settimana successiva parte da titolare, ma poi viene sostituito, stavolta, all’intervallo. Insomma, l’adattamento con la Serie A sembra difficile, e il giovane che aveva entusiasmato nella cantera del Real sembra tutto un altro giocatore rispetto a quello che gli spettatori del Franchi ammirano in quel periodo.
Nel frattempo, però, a Madrid è cambiato l’allenatore, ed è arrivato Vanderlei Luxemburgo, che si impunta e a gennaio 2005 chiede che Portillo faccia ritorno alla casa madre. Così, lo spagnolo lascia l’Italia dopo 6 mesi e un solo gol segnato in A, una punizione contro il Chievo.
Curiosamente, però, nel secondo semestre con il Real Portillo non vede quasi mai il cambio, e nell’estate successiva viene spedito ancora una volta in prestito, stavolta in Belgio. Javier chiude la stagione 2005/06 con 11 gol in 32 partite, e sembra pronto per tornare di nuovo a Madrid, dove nel frattempo è arrivato un nuovo allenatore, Fabio Capello.
Oltre a Capello, però, ci sono anche tanti altri campioni in attacco, e il mercato ha portato l’olandese Ruud van Nistelrooy. Per Portillo non c’è più spazio, e la sua storia con il Real Madrid finisce qui, insieme, forse alle speranze di gloria.
Da quel momento, diventa quello che in Italia chiameremmo “bomber di provincia”, passa dal Gimnastic all’Osasuna, poi nel 2009 scende addirittura in Segunda Division per giocare con la maglia dell’Hercules, e, per inciso, per trovare anche l’amore della sua vita, ovvero la figlia di uno degli azionisti di maggioranza della squadra di Alicante.
Dopo una stagione al Las Palmas, nel 2012, tra le polemiche, fa ritorno nuovamente all’Hercules, rimanendo in squadra anche dopo la retrocessione in terza serie, e nel dicembre del 2015 annuncia il suo addio definitivo al calcio giocato.
Javier Portillo chiude così la sua carriera con 116 gol segnati in 428 partite, lasciandoci l’insegnamento che, a volte, nel calcio, conviene andarci piano con le aspettative. Perché, quando diventano pesanti come macigni, basta poco per farle diventare vere e proprie delusioni.