Quasi tutti associano il nome di Otto Rehhagel a quello della Grecia, la squadra in grado di vincere incredibilmente, contro ogni pronostico, l’Europeo del 2004.
Una favola di quelle che nel mondo del calcio accadono così raramente che anche a distanza di anni sono impossibili da dimenticare, una storia che spiega meglio di qualsiasi altra perché nel calcio, a dispetto del valore sulla carta, dei soldi e del prestigio, l’esito di un incontro o di un torneo non sia mai del tutto scontato.
L’artefice di quell’impresa eroica, passato alla storia insieme a quei ragazzi che hanno sputato sudore e sangue sul terreno di gioco, è stato il tecnico tedesco Otto Rehhagel, la cui carriera ha raggiunto l’apice estremo in quell’Europeo in Portogallo ed il cui cammino è iniziato parecchi anni prima, da calciatore inizialmente e sulla panchina successivamente.
Inutile dire che un successo del genere, sovvertendo ogni pronostico, ha monopolizzato il palcoscenico facendo passare in secondo piano alcune altre grandissime imprese che Rehhagel aveva già compiuto nel corso della propria carriera, che non a caso lo hanno incoronato come uno dei migliori tecnici al mondo e tra i più vincenti, almeno in Germania.
Da calciatore Otto Rehhagel ha militato inizialmente nella squadra della sua città, il Rot-Weiss Essen, per poi passare all’Herta Berlino e infine al Kaiserslautern, che è stata la sua ultima squadra dal 1966 al 1972.
È innegabile però che il meglio di sé Rehhagel lo abbia dato quando si è seduto sulla panchina, riuscendo ad inculcare alle sue squadre una mentalità vincente basata su un calcio che, in quegli anni, non era così di moda.
Nella metà degli anni 70, quando il tecnico inizia la propria carriera a bordo campo, è l’epoca del calcio totale, quello sviluppato massimamente da Rinus Michels e dalla sua Olanda. Anche negli altri paesi l’impatto filosofico e concettuale di quel tipo di calcio è innegabilmente molto forte ma non tutti decidono di abdicare ai propri principi per tentare di assecondarlo.
Non lo fa, ad esempio, Otto Rehhagel che fin dagli esordi da allenatore in Germania dimostra di credere ad un altro tipo di calcio, basato più sul fisico che non sulla tecnica, un calcio in cui anche giocatori con una classe poco più che discreta possono giocarsela alla pari con i grandi, puntando sulla grinta e sull’ardore agonistico estremo.
Inizia a perfezionare il suo credo nelle serie minori tedesche e arriva ben presto in Bundesliga, prima al Werder Brema e poi al Borussia Dortumund; non è il Dortmund che conosciamo noi oggi, ovvero una delle migliori squadre di Germania, ma è pur sempre un incarico di prestigio.
Le cose però non vanno subito a gonfie vele, anzi la sua permanenza in giallonero diventa celebre più che altro per una scoppola senza precedenti patita dal Borussia Moenchengladbach, una sconfitta per 0-12 che fa il giro del mondo e gli costa parecchi sberleffi.
Nel ’78 si interrompe la sua avventura in giallonero e approda all’Arminia Bielefeld, squadra che lo chiama nel tentativo disperato di salvarsi ma che a fine stagione è costretta ad arrendersi alla retrocessione, nonostante una battaglia con le unghie e con i denti fino alle battute finali del torneo.
La stagione successiva lo troviamo al Fortuna Dusseldorf, squadra con cui conquista il suo primo trofeo, ovvero la Coppa di Germania. Qualcuno inizia a convincersi che quel suo calcio, frutto di un pragmatismo estremo ed ossessionato, non è adatto solo alle situazioni disperate ma può avere successo anche in altre realtà, magari in squadre sprovviste di grandissimi campioni che però grazie ad un’abnegazione fuori dal comune possono ambire a grandi traguardi.
Nell’81 torna al Werder Brema, dopo la fugace esperienza di qualche anno prima e vi rimane per ben 14 anni, nei quali il club vince due campionati (’87-’88 e ’92-’93), due Coppe di Germania (’90-’91 e ’93-’94), tre Supercoppe (88, 93, 94) e una Coppa delle Coppe (’91-’92).
È proprio l’esperienza alla guida del Werder, squadra che negli anni ’70, prima del suo arrivo, aveva raccolto solo risultati deludenti, che lo pone al centro dell’attenzione in Germania e non solo, tanto che il Bayern Monaco gli offre l’incarico di allenatore nel 1995.
L’esperienza alla guida dei bavaresi è caratterizzata da continui dissapori con il presidente Beckenbauer e alla fine il tecnico viene esonerato, rimpiazzato dallo stesso presidente nel mese di Aprile, poco prima della finale di Coppa Uefa che poi il club vincerà.
I suoi detrattori riprendono voce, Otto Rehhagel non è adatto per guidare una grande squadra, dove qualsiasi risultato al di fuori della vittoria finale è da considerarsi un fallimento. Lui ascolta ed incassa in silenzio, senza fermarsi e senza essere scalfito minimamente nelle proprie convinzioni.
Non è certo un problema se, da un anno all’altro, passa da allenare il Bayern Monaco al Kaiserslautern, retrocesso in Zweite Liga.
Non solo Rehhagel accetta di mettersi in discussione ma al comando del Kaiserslautern compie un’impresa leggendaria, paragonabile a quella ben più celebre ottenuta con la Grecia qualche anno più tardi.
Dopo aver condotto la squadra subito in Bundesliga, Rehhagel guida i suoi alla vittoria del campionato nella stagione immediatamente successiva, un evento che non ha precedenti nella storia del massimo campionato di calcio tedesco.
I suoi ragazzi sono protagonisti di un torneo strepitoso, condotto sempre in testa alla classifica e vinto con una giornata di anticipo. I giocatori simbolo di quella stagione sono l’attaccante Olaf Marschall, a segno in 21 occasioni, Andreas Brehme e Ciriaco Sforza, due che hanno condiviso un passato all’Inter seppur con diversissime fortune ed un giovanissimo Michael Ballack, che farà parecchio parlare di sé anche negli anni a venire.
“Otto ci dava libertà in campo. Ci diceva la formazione e noi facevamo il resto. Tutti aiutavano in difesa, anche gli attaccanti, e inseguivamo la palla appena la perdevamo” – Olaf Marschall
Nel 2001 inizia l’avventura da ct della Grecia, una Nazionale che fino a quel momento aveva ottenuto pochissimi traguardi, ovvero la qualificazione all’Europeo nel 1980 e al Mondiale di Usa ’94. Poi il vuoto totale.
Rehhagel ha già oltre 60 anni quando accetta l’incarico e sa che ci vorrà del tempo per rendere quella squadra presentabile e in grado di dare fastidio alle nazionali più quotate. Certo, nessuno, nemmeno lontanamente, avrebbe potuto anche solo immaginare ciò che sarebbe successo da lì a 4 anni.
Il resto è Storia. È la Grecia di Nikopolidis, Dellas, Seitaridis, Zagorakis, Karagounis e Charisteas sul trono d’Europa. È il trionfo di un calcio fatto di sacrificio, sofferenza, cuore e spirito di abnegazioni.
È il punto più alto di Otto Rehhagel, arrivato quando ormai la sua carriera sembrava destinata ad imboccare il viale del tramonto.
Dopo il trionfo rimane sulla panchina della Grecia per altri 6 anni: fallisce la qualificazione al Mondiale del 2006 ma si qualifica agli Europei del 2008 e soprattutto riporta la Grecia ad un Mondiale nel 2010, a distanza di 16 anni dall’ultima volta.
Al termine dei Mondiali decide di dare l’addio alla Nazionale, consapevole di aver già raggiunto il massimo che si potesse raggiungere e forse qualcosa in più.
L’ultima stagione in panchina è quella alla guida dell’Hertha Berlino, conclusasi con la retrocessione della squadra e l’allontanamento del tecnico. Una macchia che non scalfisce minimamente una carriera vincente partendo spesso da una posizione sfavorita, sovvertendo pronostici e realizzando sogni.