Che storia strana la sua. Per “polmoni” e presenza in campo, sembrava il più professionale di tutti, quello attento ai minimi particolari pur di essere performante.
E invece…
“Per tutta la carriera ho fumato un pacchetto di sigarette al giorno. Anche l’alcol è stato un problema. Ok, bruciavo tutto negli allenamenti, ma vivevo al limite. Una volta ad Azul, il mio paese, ho bevuto cinque litri di vino come fosse Coca Cola, e sono finito in una specie di coma etilico. Un dottore mi ha fatto 5 ore di flebo… Quando mi sono svegliato e ho visto tutta la mia famiglia intorno al letto, ho pensato che fosse il mio funerale”.
Non se l’è passata bene Matias Almeyda, come racconta nella sua autobiografia “Alma y vida”.
Prima la depressione, poi l’addio al calcio prematuro.
“Un giorno non sentivo più la mano, quello dopo avevo perso la sensibilità nella metà del corpo. Ho capito che dovevo fare qualcosa quando mia figlia mi ha disegnato come un leone triste e stanco. Da allora smisi di giocare anche se potevo continuare e prendevo antidepressivi tutti i giorni…”.
Ma poi dal calcio arriva l’amico che non ti aspetti.
“Lele (Adani, ndr) è la mia anima gemella. Ci siamo conosciuti quando iniziavo a staccarmi dal sistema. Mi è stato vicino, lo considero il fratello che mi ha ridato la vita…” racconterà emozionato uno dei centrocampisti dal rendimento più costante in Italia nei suoi anni tra Lazio e Parma.
Di lui si dice che i medici biancocelesti fossero increduli mentre il centrocampista, appena acquistato, svolgeva le visite mediche: non andava mai in affanno.
Un animale da campo che non si risparmiava mai (storiche le sue “lotte con quel “Pittbull” di Edgar Davids), un recupera palloni instancabile che non si esimeva dal fare anche giocate di qualità.
Uno di quei giocatori amati dai tifosi dovunque è andato, tanto da meritarsi uno degli striscioni più belli “Tutti per uno, Almeyda per tutti”, oltre che uno dei cori più romantici di sempre: “Tu che sei diverso, Almeyda tu, nell’universo…”.